Sarà perché sono sempre in due e quindi non soffrono la solitudine che le scarpe suscitano inusitate passioni nei bambini illuminandoli d’immenso. Non servono parole, basta un ammiccamento di consenso o di stupore rivolto alle scarpette nuove che, subito, il piedino si allunga in una fiera di esibizione e vanità. Ma in fondo, a ben pensare, quale altro modo possiede un bebè per rappresentare la propria vita interiore se non il gioco e, prima ancora, gli oggetti che lo circondano.
Si comincia con le scarpine di lana tanto indifferenziate dal corpo che il lattante, alle prese con il formarsi di una propria pelle, immancabilmente si toglie, getta per aria e aspetta che ricompaiano, sperimentando così, in un primo momento, le sensazioni relative al distacco e alla riunione di pezzetti di sé. Un gioco curioso che si ripete immutato nel tempo e col quale il piccino, quando si trova alle prese con i primi abbozzi di pensiero simbolico, mette in scena ed elabora l’altalenante presenza della madre.
Crescendo, le scarpe favoriscono l’indipendenza, consentono di allontanarsi, di sguazzare nelle pozzanghere, di immaginarsi grandi indossando quelle a spillo della mamma e quelle vascello del babbo, oppure celebri sfiorando i palcoscenici in punta e tutù o sgambettando dietro a una palla sulle orme di Del Piero, oppure, alle prime incomprensioni, consentono di progettarsi vagabondi per le strade del mondo.

Tratto da Microbi – Tutti i bambini nascono piccini – Manuela Trinci

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