Un’interessante scoperta* pubblicata ieri (naturalmente viene dall’America!) e che potrà essere utile per capire come aiutare meglio i dislessici:

I lettori esperti sono in grado di riconoscere le parole perchè collocate in una sorta di dizionario visivo, questo è quello che hanno scoperto i neuroscienziati della Georgetown University Medical Center (GUMC).

L’idea del dizionario visivo confuta la teoria che il nostro cervello riconosce le parole per il suono.

Questa scoperta, riportata al meeting annuale della Society for Neuroscience 2011, è importante perché può aiutare a scoprire le basi cerebrali dei disturbi di lettura, come la dislessia.
La ricercatrice Laurie Glezer dice:

“Quello che abbiamo scoperto è che una volta che abbiamo imparato una parola, è collocata in un dizionario puramente visivo nel cervello. Avere una rappresentazione puramente visiva permette il riconoscimento veloce ed efficiente delle parole, quello che vediamo nei lettori esperti. Questo studio è la prima dimostrazione di questo concetto.
Potrebbe essere che nella dislessia, a causa di problemi di elaborazione fonologica, questi individui non siano mai in grado di sviluppare una rappresentazione visiva delle parole che hanno incontrato prima.
 
Glezer e collaboratori hanno fatto riconoscere delle parole in 12 volontari con la fMRI (Risonanza Magnetica Funzionale per Immagini).
Quando vediamo una parola per la prima volta, abbiamo bisogno un certo tempo per riconoscerla e leggerla ad alta voce, ma forse, dopo solo una presentazione della parola, si può riconoscerla senza pronunciarla.
 I ricercatori sono stati in grado di vedere che parole diverse, ma con un suono simile, come “lepre” e “capelli” (in inglese “hare” ed “hair”), attivino neuroni diversi. Ciò si verifica perché il nostro cervello utilizza prima la fonologia per decodificare la parola e abbinare il suono con la parola scritta. Una volta che lo facciamo e incontriamo la parola più spesso, non abbiamo più bisogno, all’inizio, della fonologia, ma basta l’input visivo per identificare la parola”.

  * La traduzione è mia.

8 commenti su “IL CERVELLO RICONOSCE LE PAROLE VISIVAMENTE”

  • Pingback: www.blog-news.it
  • Molto interessante: io ho sempre individuato un vero e proprio corpo nelle parole. E anche in greco antico, ad esempio, “gramma” significa “lettera”, ma la lettera ha anche un “peso”, dato che “gramma” è anche il segno inciso sulla stadera per indicare il “grammo”.
    Vedere il corpo delle lettere, osservarne la forma, la crescita e il respiro, consente di comprendere che sono vive: e così le loro radici ci consentono di crescere….

  • http://www.corleonedialogos.it/i-cunti/362-le-pagine-di-nonno-guglielmo.html

    LE PAGINE DI NONNO GUGLIELMO

    C’era una volta una bimba cresciuta tra le pagine profumate di un vocabolario di greco. Appiattita tra i fogli come un fiore d’altri tempi, la bimba si ritrovava al sicuro tra quelle parole antiche che risuonavano d’echi e la facevano vibrare di suggestioni misteriose e potenti. Aveva scoperto, la bimba, che le parole erano connesse tra loro in nuclei familiari, a volte numerosi, a volte un po’ meno; e che all’interno del dizionario vivevano riunite in piccoli condomini o villette singole, proprio come avveniva nel mondo di fuori, ma sempre circondate da un giardino fatato. Entrare in quel giardino significava accedere a mondi sconosciuti, in cui “sotto dietro prima dentro” erano sempre ben visibili e in primo piano, e il vuoto del vaso era ciò che dava un’utilità al vaso, e il vuoto delle porte e delle finestre era ciò che dava un’utilità alle porte e alle finestre.
    Il vuoto tra quelle pagine lentigginose accoglieva come un abbraccio, e riempiva quello che lei sentiva dentro di sé e che in nessun altro modo poteva essere colmato. Vivere tra quelle pagine le consentiva di decodificare il mondo, che per lei era fatto di parole mute, senza voce, parole straniere che narravano le ‘storie che non furono mai, ma sono sempre’.
    “Che vuol dire ‘sempre’?” aveva chiesto una volta al suo dizionario, che aveva un nome e cognome proprio come una persona in carne ed ossa, un nonno antico, che esisteva già da molte generazioni: Guglielmo Gemoll, si chiamava.
    ‘Una volta per tutte’, le aveva risposto lui senza esitazione.
    “E ‘storie’, che vuol dire?”
    “Cose che hai visto con i tuoi occhi e che per questo sai”.
    “Ma se non furono mai, come fanno ad essere sempre?”
    “Mistero”, aveva risposto lui. “Chiudi gli occhi e stringi le labbra, prova a parlare, che cosa riesci a dire?”
    “Mu”, aveva risposto lei.
    “Proprio così: mu”, e avevano riso insieme.
    Quando aveva timore di qualcosa, la bimba chiedeva a nonno Guglielmo, e lui le rispondeva col suo quasi impercettibile fruscio leggero – “Nonno, cos’è una ferita?”
    “E’ un trauma”
    E lei, incalzante: “e un trauma cos’è?”
    “Una lesione, un danno, una sconfitta; uno stordimento; il segno di una perforazione. Oppure un’ulcera, un solco, il segno dell’aratro che affonda nella terra”
    “Allora arare la terra vuol dire ferirla?”
    “Sì. La terra non ha bisogno di essere coltivata per generare: è divina. Bisogna uscire da quei solchi e richiuderli”
    “E come?”
    “Mu”
    Sul dizionario di latino – meno risonante ma pur sempre utile – lei aveva scoperto che delirare era proprio questo: uscire dal solco.
    “Nonno, chi è lo psichiatra?”
    “Colui che si prende cura di una farfalla”.
    “Cosa sono le stelle?”
    “Gocce di latte sulla via”
    “E se non le vedi?”
    “Quello si chiama desiderio”.
    “Cos’è l’Ade?”
    “Ciò che non può essere visto e non vede”
    “Che vuol dire felice?”
    “Che allatta ed è allattato: nello stesso tempo”.
    “Cos’è il mito?”
    “Un racconto muto”
    “E il rito?”
    “Un silenzio raccontato”
    Ma in quella vicendevole risonanza un giorno lei cadde in una trappola. “Cos’è il simbolo?”, gli chiese, e lui “L’unione degli opposti” rispose.
    L’unione degli opposti divenne allora la via.
    Bianco evocava Nero, Uomo Donna, Giorno Notte: ogni cosa evocava il suo opposto, ma in questa corsa inarrestabile verso gli opposti lei non era mai se stessa. In piedi tra la Terra e il Cielo, si sentiva responsabile della loro unione, e in questa continua tensione dimenticava di esistere.
    Ma ora: ora si avvicinava la Festa della Luce.
    Luce evocava Tenebra: come fare ad unirli se quando c’era uno spariva l’altro?
    “Nonno, che vuol dire Luce?”
    “Bianco, chiaro, splendente: come l’acqua, il latte, una nube, un piede scalzo. Come il sole e la Luna, la brace incandescente, lo sperma”.
    Tossicchiò, il nonno, e aggiunse: “Voglio rivelarti un grande segreto: ma devi serrare le labbra, mantenere il silenzio”.
    “Mu”, disse lei, incrociando le dita sulle labbra.
    “Luce vuol dire Luce.
    Buio vuol dire Buio.
    Donna vuol dire Donna.
    Uomo vuol dire Uomo.
    E tu sei tu: non sei una parola, e hai una voce.
    E’ il momento di andare”.

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