Niente al mondo è così potente quanto un’idea della quale sia giunto il tempo.

Victor Hugo

Gli analfabeti del XXI secolo non saranno quelli che non sanno leggere e scrivere, ma quelli che non saranno in grado di imparare, disimparare e reimparare.

Alvin Toffler

Il più grande nemico della conoscenza non è l’ignoranza, è l’illusione della conoscenza.

Stephen Hawking

 INTRODUZIONE 

Sono giunta alla scrittura di questo nuovo lavoro con molti timori. La mia carriera di logopedista si avvicina ai quarant’anni di servizio e l’essermi dedicata ai Disturbi Specifici di Apprendimento (DSA)1 mi ha inevitabilmente portato a confrontarmi col mondo della scuola, comprendendo sempre di più nel tempo che la scuola è un luogo prezioso ed essenziale per la crescita della persona.

Ma perché una logopedista scrive un libro sul rinnovamento della scuola? Non dovrebbe occuparsi solo degli studenti che hanno difficoltà di apprendimento? La risposta è che, proprio grazie al fatto che mi occupo di quelle che vengono definite neurodivergenze, sono giunta ad alcune conclusioni che mi hanno spinto a intraprendere la scrittura di questo testo. In un’epoca in cui la complessità è la regola e in cui i campi della scienza e della conoscenza si intersecano, credo che sia necessario saper guardare e riflettere da più angolature.

La convinzione principale che mi ha portato fin qui è spiegata da una metafora che mi viene in aiuto per far comprendere quello in cui credo.

Gli studenti neurodivergenti sono per la scuola quello che i canarini erano per i minatori.

I canarini erano cruciali dispositivi di sicurezza che rilevavano il monossido di carbonio. Essendo sensibili a questo gas, i canarini erano degli allarmi viventi: al minimo segno di sofferenza o alla caduta di uno di essi, i minatori sapevano che era il momento di evacuare per salvare le proprie vite. Nel nostro caso gli studenti dislessici sono dei perfetti rilevatori dell’inefficienza del sistema scolastico, lo sono da tempo, ma si continua a far finta che siano loro ad essere inappropriati e non la scuola, così come per gli altri tipi di neurodivergenze2.

Questi studenti fanno parte di una comunità di persone che vogliono essere viste e ascoltate, e che fanno appello al concetto di neurodiversità, termine coniato nel 1998 dalla sociologa autistica Judy Singer. Questo termine, a volte ancora non del tutto compreso, dovrebbe diventare il nuovo paradigma della società, riconoscendo che tutte le persone sono portatrici di diversità umana, al pari della biodiversità per la biosfera. La neurodiversità, in generale, è un potenziale da valorizzare. All’interno della neurodiversità, che spiega il profilo neurologico di ogni persona, si situa la neurodivergenza, uno sviluppo neurologico atipico che va riconosciuto e rispettato come una normale “variazione umana”, considerando che un mondo in cui questo concetto non sia espresso e compreso, è un mondo ipoevoluto perché non è in grado di sfruttare le potenzialità di ogni individuo. Mi preme subito chiarire che il termine neurodivergenza è inclusivo di qualsiasi condizione neurologica che diverga dalla norma stabilita dai modelli medico e culturale, norma stabilita secondo criteri statistici, quindi, questo termine descrive una categoria non clinica, con presupposti e valenza sociale. Questo, tuttavia, non vuole essere un modo per indorare la pillola, quanto il riconoscere la ricchezza e la complessità del cervello umano (Grenci, 2020).

È giunto il momento, per le menti neurodivergenti, di farsi largo, ma sarà necessario che l’ambiente sia in grado di accogliere l’individuo nella sua globalità, rispettandone potenzialità e limiti. In questo l’era tecnologica può offrire l’opportunità per sviluppare i punti di forza di queste menti, che le rendano abili ad inserirsi in processi allargati e, quindi, inclusivi. Da qui il riconoscimento dell’importanza che riveste la cura dell’ambiente di apprendimento e la scelta di strategie didattiche e di adeguati stimoli in una visione globale della persona che apprende (Savia, 2019).

Ma perché la scuola deve cambiare per tutti gli studenti? Perché la mente dei nostri studenti è cambiata ed è sempre più simile alla mente degli studenti dislessici, quelli che oggi hanno bisogno di un Piano Didattico Personalizzato, così da far pensare che non siano loro ad averne bisogno ma che è la scuola a dover personalizzare le sue modalità di insegnamento per tutti gli studenti. Il vero problema è che questa argomentazione crea, nella nostra società, un giudizio negativo, perché il pensiero corrente tende a svalutare tutto ciò che si allontana dalla “norma” (stabilita secondo una media statistica), quindi la conclusione a cui si giunge è: i nativi digitali sono diventati tutti dislessici! In realtà, come si scoprirà andando avanti nella lettura del libro, sono completamente cambiate le condizioni di apprendimento nella società digitale e non tenerne conto non fa che aumentare le difficoltà di tutti gli studenti.

Ho ascoltato, durante gli anni, sia le voci delle famiglie che quelle della scuola, ed entrambe hanno manifestato scontento e senso di impotenza di fronte a situazioni che non trovano soluzione, perché ognuna delle due istituzioni si arrocca, spesso, su posizioni divisive. Eppure sia i genitori che gli insegnanti riconoscono l’importanza della scuola che, però, non riesce a costruire appieno una realtà all’altezza dei tempi in cui viviamo.

Ecco perché, attraverso questo scritto, spero di dar voce a quella realtà nuova che si sta costruendo a fatica, ma che dovrebbe essere la linfa del cambiamento.

La mia formazione e la mia esperienza mi hanno convinto che senza considerare le basi neuroscientifiche (purtroppo, a volte, ciò che gli insegnanti conoscono su come si apprende è più un prodotto della cultura in cui sono immersi che il risultato di ricerche e dati) si rischia di continuare ad agire per tentativi ed errori, ma il tempo di ragionare a vuoto è un lusso che non possiamo permetterci. Il tempo stringe, anzi: è già scaduto. Nella società complessa3 in cui viviamo il senso di incertezza rischia di lasciarci spaesati mentre la necessità di rinnovamento di un’istituzione come la scuola, che non sempre considera quanto sia cambiato l’accesso alla conoscenza, ci rimanda ad un presente deludente. Per rinnovarsi la scuola deve aderire alla sua chiamata di comunità educante che, facendo rete con la realtà circostante partendo dalle famiglie, deve rispondere alle esigenze dell’uomo di oggi, i bambini per primi, e quello che poteva apparire un modello di scuola “contro-culturale” è ora più allineato con il modo in cui il nostro mondo si sta evolvendo rispetto ai sistemi tradizionali di fare scuola, con cui abbiamo più familiarità e in cui siamo cresciuti.

Amo il mondo della scuola (sono figlia di un’insegnante) e comprendo quanto sia complicato essere l’adulto di riferimento. Per fortuna, nonostante tutto, esistono insegnanti fantastici e dirigenti che, accanto alle doti manageriali, conservano il loro amore per la didattica e per i ragazzi. Tuttavia la polemica che innescherà l’argomento “innovazione della scuola italiana” (io preferire dire “trasformazione”) sarà immancabile. Se ne parla da troppo tempo senza che si siano modificati i principi antiquati ai quali essa fa riferimento, nonostante tutte le eccezioni del caso e i buoni propositi. Il motivo è che questi principi restano lontani dalle esigenze del nostro secolo. Come lo si vede? A occhio, basta entrare in una classe tipo: la cattedra, i banchi disposti in file, la lavagna. È vero, da qualche anno molte scuole hanno la LIM, l’aula multimediale e, a volte, il PC per gli studenti, ma spesso vengono utilizzati come se fossero strumenti analogici, meri sostituti della lavagna di ardesia o di carta e penna, privi di prospettiva verso una nuova modalità di apprendimento.

Mi dispiace dirlo, ma trovo anche che il continuo lamentarsi per l’abbandono della scrittura a mano o altre questioni che tratto nel libro, come l’aumento di difficoltà di comprensione del testo nei ragazzi, non sono soltanto il segnale di un cattivo uso della tecnologia, ma sono la riprova di quanto la scuola abbia trascurato le basi pedagogiche con la conseguenza della mancanza di metodo nell’insegnamento.

In l’Italia, patria di educatori e pedagogisti che tutto il mondo ci invidia (basti solo ricordare Montessori, ma anche le sorelle Agazzi, Don Milani, Manzi, Malaguzzi, Dolci, Lodi, che sono stati dei grandi innovatori e pionieri), la spinta verso il cambiamento è ancora modesta, con conseguenze sociali molto pesanti, in quanto siamo ancora tra i Paesi europei dove il fenomeno dell’abbandono scolastico precoce risulta più consistente, anche se negli anni la situazione è lievemente migliorata. Nel 2022, secondo dati Eurostat, il nostro era il quinto Paese europeo con più abbandoni (11,5%), dopo Romania (15,6%), Spagna (13,9%), Ungheria (12,4%) e Germania (12,2%).

Il modo migliore per evitare che gli studenti abbandonino la scuola è una maggiore attenzione all’individuo e all’insegnamento personalizzato, che è un investimento e non un costo, e può essere realizzato tramite l’utilizzo creativo delle nuove tecnologie; sono esse che stanno rendendo obsoleto il modello industriale dell’istruzione (Robinson, 2015).

Se la scuola cambierà ci vorrà sicuramente un atto politico4 di grande apertura mentale, scevro da ideologie di parte, e perché ciò avvenga presto e con i migliori presupposti sarà necessario amore per il cambiamento, studio e voglia di rimboccarsi le maniche da parte degli insegnanti, mossi dal desiderio di “ritrovare il luogo dell’eros dentro di sé” per catalizzare e coinvolgere gli studenti, partecipanti attivi dell’apprendimento (hook, 2020), ma anche stare dalla parte degli studenti, se si vorrà fare un’inversione di marcia.

Già nei miei precedenti scritti ho avuto modo di intersecare delle strade che conducevano a metodiche e riflessioni sulla scuola, occupandomi di DSA. Ebbene, alcuni stralci tratti dai miei libri vengono riproposti anche in questo testo. Ma se prima consigliavo, adesso sono ferma e vado dritta al punto: cambiare si deve, e anche in fretta, a partire da alcuni principi che sono le premesse al mio lavoro.

PRIMO PRINCIPIO: il sistema scolastico è stato costruito dall’uomo per servirsene e invece l’uomo ha finito per diventarne schiavo, con la conseguenza che se lo studente non si adegua al sistema è lui il colpevole, non il sistema (Aberkane, 2017). Il motivo del fallimento del sistema scolastico è che, nonostante una serie di riforme che non sono entrare realmente nel merito dell’apprendimento, per cui esso non si è mai trasformato veramente. Per costruire il futuro, e dare gli strumenti giusti ai nostri giovani, bisognerà sapersi adattare alle circostanze mutevoli e la storia ce l’ha insegnato: chi si oppone al cambiamento viene spazzato via, lasciando dietro di sé solo detriti! Questo sistema non può funzionare, non in questo momento storico. Ci salverà la consapevolezza della necessità di una grande adattabilità per essere all’altezza di seguire il veloce mutare della realtà e, se fino a qualche decennio fa si prediligevano certi tipi di capacità scolastiche che potevano essere valutate in modo standardizzato, adesso questo non è più possibile.

In una scuola così costruita gli studenti che fanno fatica a stare al passo, per qualsiasi motivo, occupano l’ultimo posto, come accade nella nostra società per le persone fragili, società in cui prevale il modello della mancanza, e non quello della pienezza, quello del negativo e non del positivo. Quando viene corretto un compito a scuola, viene evidenziato in rosso l’errore, mettendo l’accento su quello che non si sa, dando per scontato ciò che si è acquisito.

SECONDO PRINCIPIO: la scuola deve essere per tutti. Non può esserci scuola se non è per tutti, la scuola deve necessariamente essere inclusiva. Una scuola inclusiva accetta il cambiamento, mobilita risorse, costruisce pratiche, incrementa la partecipazione, lavora per eliminare tutte le barriere dell’apprendimento e per promuovere la partecipazione di tutti gli alunni. Il fatto che aumentino i ragazzi con bisogni educativi speciali (BES) nelle scuole, anche per la presenza di differenze linguistiche e culturali, diventa un punto di partenza per re-impostare una scuola più accogliente, ripensando il concetto di normalità e, in generale, il modello didattico. Una scuola inclusiva non crede nella separazione tra insegnante curriculare e insegnante specializzato (di sostegno), perché obsoleto e inadeguato a rappresentare una realtà multiforme, pluriproblematica, in transizione, che richiede una rivoluzione copernicana del modo di organizzare la didattica (Pinnelli, 2015).

Una scuola centrata sulla persona, che si distacchi dalla cultura dominante che promuove definizioni ristrette di capacità, intelligenza e successo. Una scuola in cui l’idea di intelligenza e di competenza permetta alle persone di esprimere se stesse, la loro costellazione unica di punti di forza, interessi e passioni; e poi dare loro l’opportunità di esplorare l’intersezione tra chi sono e ciò di cui il mondo ha bisogno. Una scuola che non separi il livello cognitivo da quello emozionale, la mente dal corpo, e invece impostata sul nozionismo e sull’ascolto passivo.

Le sfide e le opportunità che il mondo ci sta presentando ci impongono di mettere in campo la piena diversità delle capacità e dell’ingegno umano, e il nostro sistema educativo deve essere parte di ciò che accade, piuttosto che patologizzare ed etichettare coloro che non rientrano in concezioni ristrette di “normalità” (Hansen, 2021).

TERZO PRINCIPIO: se nel millennio in cui ci troviamo si vuole parlare di pedagogia, di pratiche educative e di scuola, questo non è possibile se non si tiene conto delle neuroscienze cognitive, frutto di un secolo di ricerche sul funzionamento del cervello umano, disciplina in rapida crescita grazie alle tecnologie di neuroimmagine funzionale. Alla base di questo presupposto vi è l’assunto che il cervello umano è un’entità biologica e il comportamento cerebrale è un fatto neurobiologico, quindi interessa la scuola e la pedagogia che, per sua stessa vocazione, dovrebbe avere estranee staticità e rigidità, per creare le condizioni più consone allo sviluppo e alla crescita umana.

Naturalmente per avvicinarsi alle neuroscienze cognitive ci vuole un’impostazione scientifica (lo dice il nome stesso!), capace di riuscire ad interpretare e dare senso alle scoperte in tale ambito, con la consapevolezza che la conoscenza ultima del cervello umano e del suo funzionamento rimarrà sempre oltre le capacità di sperimentazione dei ricercatori.

La moderna neuroscienza vede il cervello come una complessa rete di reti integrate e sovrapposte (connettoma), e l’apprendimento è visto come frutto di cambiamenti nelle connessioni all’interno e tra queste reti5. Sebastian Seung, professore di neuroscienze computazionali al MIT, reputa che il connettoma sia “un’architettura che ci differenzia come individui anche nel caso dei gemelli identici perché i connettomi si modificano nel corso della vita a seconda delle esperienze e degli accadimenti che per ognuno sono diversi”. Il connettoma non è quindi un organo statico ma un sistema dinamico, in costante interazione con l’ambiente naturale, culturale e sociale del mondo esterno e ha la plasticità per cambiare durante tutto l’arco della vita. Questa eccezionale capacità di adattarsi alle esperienze individuali e di migliorare le proprie prestazioni rende il nostro cervello un organo unico e inimitabile.

Le neuroscienze ci dicono, anche, che il cervello si è evoluto in modo tale da essere sempre attivo perché ha dovuto fare i conti con l’incertezza per il futuro, come forma di sopravvivenza di fronte all’imprevedibilità del caso. La stessa imprevedibilità che sperimentano gli insegnanti che dovrebbero essere pronti ad affrontare le incertezze relative al comportamento dei loro studenti, con la conseguenza che il loro mestiere può essere gratificante o stressante, a seconda se si riesce ad intervenire o meno in modo efficace. Mettere da parte le neuroscienze sarebbe come insegnare agli studenti di medicina la pratica per prova ed errore: questo accadeva secoli fa, quando le scienze erano ancora empiriche.

Le neuroscienze devono, perciò, entrare a far parte del bagaglio culturale degli insegnanti, nella loro formazione iniziale, permanente e strutturale, così come le neuroscienze non possono trascurare le domande degli stessi, in uno scenario di scambio reciproco. Questo consentirà loro di acquisire informazioni aggiornate e scientificamente esatte, al posto delle mode passeggere e basate su fraintendimenti che abbondano oggi (Geake, 2016).
QUARTO PRINCIPIO, strettamente legato al terzo: viviamo nell’epoca del digitale e la scuola, come le restanti istituzioni, è il frutto di una certa tecnologia, se per tecnologia intendiamo quello che scrive il vocabolario Treccani: Settore di ricerca multidisciplinare con oggetto lo sviluppo e l’applicazione di strumenti tecnici, ossia di quanto è applicabile alla soluzione di problemi pratici, all’ottimizzazione di procedure, alla presa di decisioni, alla scelta di strategie finalizzate a dati obiettivi, sulla base di conoscenze.

La parola “tecnologia” deriva dalla radice greca téchne, che significa “arte” e spesso si considera insieme a epistème, che significa “scienza”. Parole che gli antichi greci dopo Aristotele usavano in opposizione, operando la dicotomia fra teoria e pratica, cosa che invece non avveniva con Platone, che usava queste parole in maniera interscambiabile. Con il termine tecnologia si intende la stessa alfabetizzazione. Ebbene se pensiamo all’evoluzione dell’umanità, gli strumenti tecnici sono stati quelli che, attraverso il ragionamento umano, hanno permesso il suo progredire, dall’invenzione del fuoco ad oggi. Non vi meravigliate: il fuoco è una scoperta di tipo tecnologico, o meglio, il suo controllo è una delle tecnologie più antiche di cui si è avvalso l’uomo. I resti di focolari risalgono a ben un milione di anni fa, molto prima della comparsa dell’Homo Sapiens. Il fuoco fu usato inizialmente per ottenere luce e calore e come difesa contro gli animali, in seguito per la cottura dei cibi, l’espansione in climi freddi, lo sviluppo dell’attività umana nelle ore notturne, la protezione dai predatori e la costruzione di utensili migliori da utilizzare per la caccia (Ipnopedia). Il fuoco rappresenta la prima possibilità per l’uomo di superare i suoi limiti fisici, con la differenza che oggi guardiamo a queste prime tecnologie come qualcosa di naturale e scontato. Ecco perché il progresso della società, il modo di trasmettere la conoscenza e di apprendere, dipende non solo dal cervello umano, ma dalla tecnologia che l’uomo sviluppa per ampliare i suoi poteri. È quello che Marc Prensky (2018), il padre del termine “nativi digitali”, chiama esternalizzazione: per millenni l’uomo ha esternalizzato e potenziato parti del cervello e della mente. La mente umana è ed è sempre stata sostenuta da tecnologie esterne (…), l’esternalizzazione ci rende umani più liberi e più abili.

Spesso non ci si rende conto, però, che è il pensiero umano a modificarsi e solo in seguito sopraggiunge la nuova tecnologia per supportarlo, a conferma che siamo noi a usare gli strumenti e non a essere usati. Il termine stesso “media”, nella definizione di Marshall McLuhan, è “estensione di noi stessi”. I media sono, quindi, “veicolo di esperienze” che integrano, ampliano e arricchiscono le possibilità conoscitive del nostro corpo di entrare in relazione con la realtà (Di Bari, 2023). In fondo la mente umana ha punti di forza e di debolezza, così come anche la tecnologia. Il giusto approccio è quello di considerarle complementari, perché lo sono.

Nella Raccomandazione 2006/962/CE del Parlamento Europeo viene citata, tra le otto competenze per vivere la cittadinanza in modo attivo e responsabile, quella digitale, intesa come il “saper utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie della società dell’informazione (TSI) per il lavoro, il tempo libero e la comunicazione. Leggendo la descrizione analitica, ci si rende conto di come tutte le discipline scolastiche siano chiamate ad ugual titolo a contribuire alla formazione di questa competenza, dal momento che l’analisi critica, la capacità di relazionarsi, la creatività e la produzione di contenuti digitali sono elementi assolutamente trasversali a tutti gli insegnamenti. Questo significa che il raggiungimento della competenza digitale non è un compito aggiuntivo, rispetto alla programmazione ordinaria, ma un elemento interno alla programmazione, tutte le volte che questo sia possibile e necessario. Gli insegnanti se ne dovrebbero far carico collettivamente a partire dai primi ordini di scuola, costruendo in modo mirato ed organico gli step necessari al raggiungimento (Vayola, 2016).

Riguardo all’uso della tecnologia digitale, però, sta accadendo che la narrazione mediatica dominante stia condizionando molte ricercatrici e molti ricercatori, che hanno scelto di abbandonare i toni cauti e asciutti della descrizione scientifica per appropriarsi del registro linguistico apocalittico proprio di una fazione politica ultraconservatrice, sacrificando le metodologie, mettendo in stallo le conoscenze scientifiche e plasmando le ricerche successive a trovare rapporti auto-confermativi più che a soppesare le complesse variabili da analizzare e la validità delle misure usate (Metitieri, 2024c). Questa narrazione è fuorviante perché si nutre del sensazionalismo, superando i riferimenti scientifici affidabili. Senza voler negare l’esistenza della possibilità di effetti negativi del digitale, questi devono essere studiati considerando soprattutto, a seconda delle età, quei soggetti che, per una complessità di fattori, sono più esposti al rischio di problematiche cognitive e comportamentali. La sfida della ricerca dovrebbe essere quella di individuare questi soggetti per poter studiare come e perché l’esposizione alla nuova tecnologia potrebbe rappresentare per loro un rischio.

Le ricerche in questo settore, però non sono unanimi. Ad esempio, la Commissione Scienza e Tecnologia del Parlamento del Regno Unito, dopo un’inchiesta sull’impatto di social media e screen time nei giovani, ha evidenziato che non c’è alcuna autentica attendibilità nelle ricerche scientifiche che vedono solo un pericolo nelle tecnologie e nel digitale. Quel che le rende inaffidabili sono difetti di metodo, e nella ricerca il metodo è (quasi) tutto.

In uno studio recente Vuorre e Przybylski (2024) 6, i cui dati sono relativi a poco meno di due milioni e mezzo di soggetti di età compresa tra 15 e 89 anni, raccolti in 168 paesi dal 2005 al 2022, gli autori smentiscono il panico generalizzato sull’uso di Internet e dello smartphone che è stato alimentato negli ultimi anni su basi inconsistenti quando non addirittura artefatte. “In tutti i paesi e per tutti i dati demografici, le persone che avevano accesso a Internet, accesso a uno smartphone o che utilizzavano attivamente Internet, riportavano maggiori livelli di soddisfazione di vita, esperienze positive, senso di scopo e benessere fisico, comunitario e sociale, e livelli più bassi di esperienze negative”. Nonostante i limiti, che gli autori stessi hanno evidenziato, questo studio dimostra che le persone che usano Internet, indipendentemente dal paese in cui abitano, riferiscono un maggiore benessere rispetto alle persone che non lo usano.

Sono numerosi gli studiosi che vanno oltre il determinismo tecnologico che vuole incolpare smartphone e social media dei problemi dei giovani. La canadese Candice Odgers, psicologa dello sviluppo, scrive: i social media sono uno dei fattori meno influenti nel predire la salute mentale degli adolescenti. I fattori più influenti includono una storia familiare di disturbi mentali, l’esposizione precoce alle avversità, come violenza e discriminazione, e fattori di stress legati alla scuola e alla famiglia. Alla fine dello scorso anno, le Accademie nazionali di scienze, ingegneria e medicina hanno pubblicato un rapporto in cui si concludeva: le ricerche disponibili che collegano i social media alla salute mostrano piccoli effetti e associazioni deboli, che possono essere influenzate da una combinazione di esperienze buone e cattive. Contrariamente all’attuale narrazione culturale secondo cui i social media sono universalmente dannosi per gli adolescenti, la realtà è più complicata” (Odgers, 2024). Naturalmente stiamo parlando di adolescenti di età pari o superiore a quindici anni, mentre i giovanissimi, spesso già in balìa dei social, hanno una risposta del tutto diversa all’uso dei social e verrà esaminata durante la lettura del libro.

Tornando all’assunto che la scuola è il frutto di una certa tecnologia, bisogna che si facciano i conti con l’attualità della tecnologia e con questa arretratezza tutta italiana che, nell’ultima rilevazione europea disponibile del 2021, mostra come solo il 45,7% degli italiani aveva competenze digitali di base (siamo al quartultimo posto nella graduatoria europea), contro il 53,9% dei Paesi UE277.

I nostri giovani, inoltre, sono al terzultimo posto, ma in compenso siamo primi in Europa nella diffusione delle notizie false (dopo la Germania). Il nostro paese si colloca, infatti, al 25simo posto dei 27 paesi dell’unione europea. L’UE riconosce che le competenze digitali insufficienti costituiscono un ostacolo sia alla partecipazione nella società digitale e poi all’economia digitale.

Secondo l’Ecdl (Ente Europeo per le certificazioni informatiche) il 42% dei giovani sottovaluta i pericoli e le problematiche che si possono incontrare navigando in Internet in modo inconsapevole e superficiale. La situazione è simile se si confronta con l’indice europeo della digitalizzazione dell’economia e della società del 2022, anche in questo caso più della metà dei cittadini italiani non ha competenze digitali di base. Pubblicato a febbraio 2024 dall’ufficio europeo di statistica Eurostat sulla situazione di condizione di grave deprivazione materiale e sociale del 20218, l’Italia si è attestata al 3,7%. Nello stesso anno e per la stessa fascia d’età (15-29 anni), il dato relativo al rischio di povertà o esclusione sociale era del 24,5%, mentre quello relativo alla popolazione globale dell’Ue era del 21,6%. Questi dati, purtroppo si collegano a quelli precedenti relativi all’abbandono scolastico e all’arretratezza digitale del nostro Paese.

È innegabile, non si torna più indietro, e chi crede che sia possibile vive ancora la dicotomia tra passato e presente (e futuro), con l’errore di fondo di pensare che la vecchia saggezza sia per forza soppiantata dalla nuova. Non è così, piuttosto questo ci porta a reinterpretare di continuo la realtà, per non perdere di vista le radici e per indirizzare l’uso della tecnologia al servizio della libertà e dell’evoluzione dell’essere umano.

Il vero pericolo dell’uso della tecnologia digitale, differentemente da quella precedente, è il suo potenziale: quello di diventare il fine, piuttosto che il mezzo, perché gli strumenti tecnologici sono solo dei mezzi da mettere a disposizione dei modelli educativi rinnovati, e che da soli non rappresentano il cambiamento che evocano e che possono generare (Furfaro, 2022). La tecnologia può arricchire e aiutarci a modellare le nostre vite, ma solo se siamo disposti ad assumerci maggiori responsabilità e ad aiutare le tecnologie ad assolvere i loro compiti.

Il libro è suddiviso in tre capitoli, ognuno dei quali approfondisce l’argomento trattato attraverso numerosi paragrafi.

Nel primo capitolo vengono affrontati gli argomenti relativi alle motivazioni per cui la scuola è ormai un’istituzione fuori dal tempo, con i punti di maggiore criticità e i fondamenti dell’apprendimento che dovrebbero essere considerati i capisaldi.

Nel secondo capitolo vengono affrontati gli argomenti relativi alle neuroscienze applicate alla didattica e all’importanza delle ricerche scientifiche in questo ambito.

Il terzo capitolo è interamente dedicato alla tecnologia applicata alla didattica, con numerosi esempi del suo migliore utilizzo.

In ultimo, troverete la postfazione dedicata alla realtà di Still I Rise e alle loro idee sul fare scuola.

A Still I Rise ho deciso di destinare i proventi della vendita del libro.

1 I DSA si distinguono in: dislessia, ovvero un disturbo specifico della decodifica del testo scritto. Disortografia, ovvero un disturbo specifico della compitazione. Disgrafia, ovvero un disturbo specifico della scrittura di natura motoria. Discalculia, ovvero un disturbo specifico delle aree di numero, calcolo e senso del numero; gli studenti con discalculia mostrano difficoltà nella lettura e scrittura dei numeri, nella memorizzazione dei fatti numerici, nel calcolo scritto e a mente, nel giudizio di numerosità e nel confronto tra grandezze numeriche.

2 All’interno della neurodivergenza vengono inseriti i quadri clinici del Disturbo Specifico di Apprendimento, dei disordini dello spettro autistico, dell’ADHD, della disprassia e la Sindrome di Tourette.

3 Complexus significa “ciò che è tessuto insieme”: il sistema complesso è un insieme di parti che si influenzano reciprocamente dando origine ad una grande varietà di interconnessioni e quindi di prodotti.

4 L’Italia è al 121simo posto nel mondo per investimento di fondi sulla scuola: investe per l’Istruzione il 4,2% del suo PIL, una media decisamente inferiore a quella OCSE del 5,1%. E in molti paesi europei, come la Svezia e la Danimarca, la quota è significativamente più alta, spesso superiore al 6%. Il confronto mostra che, mentre l’Italia ha punti di forza come un elevato tasso di partecipazione all’educazione della prima infanzia e una robusta partecipazione all’istruzione secondaria professionale, rimane indietro in termini di investimenti complessivi in istruzione e tassi di completamento per i percorsi tecnico-professionali rispetto alla media europea (dati pubblicati su Orizzonte Scuola, maggio 2024).

5 Queste reti sono definite connettoma umano e cioè “la descrizione complessiva della rete strutturale di elementi e connessioni che formano il cervello umano” (Sporns, 2010).

6 I due ricercatori sono noti nella comunità scientifica per il loro impegno nel promuovere l’integrità, la riproducibilità delle ricerche, l’accesso aperto ai risultati e per il contrasto al panico morale verso Internet e le tecnologie digitali.

7 Le competenze digitali rientrano nel piano d’azione del pilastro europeo dei diritti sociali e in quello per l’istruzione digitale. L’obiettivo target fissato per il 2030 è l’80% di cittadini (utenti di Internet negli ultimi 3 mesi e tra i 16 e i 74 anni) con competenze digitali almeno di base.

8 Il tasso di deprivazione materiale e sociale grave (SMSD) è un indicatore Eu che “mostra una mancanza forzata di elementi necessari e desiderabili per condurre una vita adeguata”. Tale indicatore, individuando le persone che “non possono permettersi un determinato bene, servizio o attività sociale”, stabilisce la percentuale di popolazione che sperimenta la mancanza forzata di almeno 7 elementi di deprivazione su 13 parametri (6 relativi all’individuo e 7 relativi alla famiglia) come, ad esempio, la capacità di permettersi un pasto a base di carne, pollo o pesce e la sostituzione dei vestiti logori con altri nuovi.