Ancora una testimonianza di un ragazzo dislessico riportata dalla Gazzetta di Parma il 4 ottobre.
… «Non voglio imparare a leggere… nella vita non serve». In prima elementare il primo impatto con quelle lettere che ballavano davanti ai miei occhi. Su e giù davanti al foglio e alla lavagna. Tutti ripetevano la cantilena: casa, cosa, cuore, canto… e io volavo via. Ero l’uccellino che avevo disegnato. I miei compagni erano per me dei burattini ammaestrati. Loro leggevano: io disegnavo. Il Titanic che affondava, aerei che cadevano. E la maestra mi richiamava di continuo. «Cosa c’è scritto? Cosa vuol dire? Ripeti ripeti ripeti».
A voce alta nella classe non ne infilavo una giusta. «Casa» diventava «saca», «scopa » «lasca» e via e via. Tutti ridevano. Io ero asino… asino… asino. La maestra si fermava a parlare con mia mamma all’uscita da scuola. Ero capriccioso, indisciplinato. Turbavo l’armonia della classe. Quale armonia? Erano tutti pappagallini ammaestrati. Nessuno entrava nella mia testa. Il giorno dell’Epifania la mamma aveva deciso di provare a farm i fare i compiti. «Un’oretta, poi giochiamo e ti faccio un bel regalo». Così mi aveva detto. Niente da fare. Le lettere iniziavano a ballare e a spostarsi come per farmi dispetto. Alle sette di sera era ancora lì. Non volevo deludere la mamma. Sbagliavo tutto e lei si sentiva presa in giro.
Nelle vacanze di Natale della mia prima elementare qualcosa cambiò. Non capivo cosa i miei genitori avessero scoperto dopo tutti quegli incontri che avevo fatto a Reggio Emilia dalla professoressa Mazza Perlini. Nessuno pronunciava la parola dislessia ma vedevo la mia famiglia mobilitata intorno a me. Alla fine della prima elementare mi dissero che avrei cambiato scuola. Lasciavo delle maestre matrigne e compagni di classe che non mi piacevano… ma cosa avrei trovato di diverso in un’altra scuola?
C’erano più giochi e una maestra sorridente. Mi sgridavano solo se ero indisciplinato. Al pomeriggio mia mamma mi accompagnava, un giorno a Reggio Emilia, un giorno dalla Stefania a Roccabianca: quanti chilometri… Reggio Emilia. Conoscevo a memoria ogni cartello, paletto, casa del tragitto Parma-Reggio. Quella strada sempre uguale che cambiava nelle stagioni, verde in estate, bianca d’inverno, grigia in autunno. Io volavo di albero in albero e andavo sui prati: giocavo, correvo mi rotolavo sull’erba. Quando tornavo nella realtà c’era il «metronomo» ad attendermi. Ogni tanto tentavo di oppormi… Mia mamma non sentiva ragioni. Un giorno si ruppe la macchina e quando il meccanico annunciò che doveva trattenerla ho urlato un «grazie» che forse se lo ricorda ancora.
Stefania è stata la mia prima «non maestra». Maestra di tutto. Non aveva la penna in mano e mi ha accolto nella sua grande casa sull’argine del Po. Profumo di pane e di cose buone. Annusavo tutto e assimilavo: in quella grande cucina ho imparato a muovere i miei primi passi. Non ero più un uccellino… iniziavo a camminare. Ho imparato a leggere con il metodo sillabico. Non ero più uno scolaro tonto ma ero uno scolaro. C’era ordine e armonia a casa della Stefania. La sua voce era felpata, ma potente. E’ entrata nella mia vita attraverso una finestrina e si è messa al mio fianco, con la forza della dolcezza. In silenzio. Quando sorrideva ero felice. In quel periodo mi avevano colpito le statue di marmo di Mitoraj che avevo visto a Pietrasanta: creature con la testa fasciata e tante finestrine lungo il corpo. Mi sentivo come loro. C’erano quelle aperture per entrare nel mio mondo. Stefania c’era riuscita anche se io quelle finestrine le aprivo e le chiudevo continuament e. Cercavo aiuto e poi lo respingevo: la mia testa era staccata. Ma Lei non desisteva ed è ancora al mio fianco.
Il periodo delle medie è passato in fretta. Non ero mai sicuro, fino all’ultimo giorno, di essere promosso. I regali più belli mi arrivavano in quei giorni ma io felice a metà avevo la convinzione di non averli del tutto meritati. Durante le vacanze non potevo mai abbandonare i libri e fermarmi.
Il liceo: un inferno, fin dall’inizio. Ansie, sconfitte e umiliazioni. L’avevo scelto io perché dovevo farcela… ma che fatica! Compensavo con lo sport. Correvo in bicicletta: domeniche di gare e giorni di allenamento.
La prima bocciatura in terza liceo. Un pugno nello stomaco e tanta rabbia… rabbia e ancora rabbia. Avevo lanciato troppe sfide. Con un’insegnante in particolare. Rispondevo con sfrontatezza e quando lei spiegava mi giravo a ridere. Avevo impedito ai miei genitori di consegnare agli insegnanti il certificato di dislessia. Non avevo voluto trattamenti particolari perché sapevo che non sarei stato accettato dai miei compagni. Solo dopo ho scoperto che gli insegnanti sapevano. Ero stato il moscerino che aveva stuzzicato l’elefante. Mia zia si era arrabbiata con i miei genitori perché non avevano ufficializzato il mio disturbo e aveva iniziato a parlarmi della dislessia in modo provocatorio. «Tu sei dislessico e hai imparato a leggere perché sei un genio… Einstein era dislessico…». Non capivo come potessi essere asino e genio al tempo stesso. Il cambio di scuola si impose.
La seconda bocciatura al Maria Luigia. Bruciava più della prima. Una fiamma che mi ha attraversato il corpo per diverse ore. Non ho parlato. Se avessi potuto esprimere un desiderio avrei voluto che quella fiamma avvolgesse tutta la scuola che mi aveva fatto questo. Avevo deluso tutti o avevo subito un’ingiustizia? Poi sono venute le parole dei miei genitori, della Stefania e degli zii. Un unguento sulle mie ferite. Loro soffrivano con me e con il passare dei giorni ero un torrente in piena e ho parlato a ruota libera… Ero King Kong. Avevano aperto la mia gabbia e tolto tutte le catene. Ho raccontato di come mi aveva trattato l’inse – gnante di Scienze quando aveva scoperto che durante il compito in classe leggevo gli appunti che mi ero annotato nella suola delle scarpe. Mi aveva trascinato fuori dall’aula, chiamato gli altri insegnanti e umiliato in mezzo a tutti. «Sei dislessico… non è una colpa… » continuava a ripetermi la zia. «Non devi nasconderti con nessuno. Se tu non fossi intelligente non avresti imparato a leggere… è come per noi se dovessimo leggere in arabo…».
Quando la zia ha scritto il ricorso al Tar ho saputo per la prima volta che avevo dei diritti. Ho saputo che i miei genitori avevano consegnato tutti i certificati medici e chiesto l’applicazione delle circolari ministeriali. Mi hanno spiegato quali fossero gli strumenti che avrei potuto utilizzare. E la voglia di rivincita ha preso il posto della rabbia. Ho ricostruito tutto. Avevo diritto ad una programmazione ma l’insegnante di Scienze mi interrogava a sorpresa, avevo diritto a consultare quegli appunti di Scienze perché non memorizzavo la terminologia scientifica ed ero stato ridicolizzato in mezzo a tutti, avevo diritto ad usare la calcolatrice nei compiti di matematica, avevo diritto ad una diversa valutazione nell’inglese scritto… Loro, gli insegnanti, non lo sapevano e mi avevano bocciato.
In quel periodo la mia autostima era cresciuta, sapevo che i miei familiari e Stefania credevano in me, sapevo che per gli insegnanti ero un problema e nella mia testa li ho bocciati: erano quei tre che mi avevano appiccicato addosso quei voti così bassi come un tatuaggio permanente. Per loro valevo poco, ma avevo intorno un’atmosfera che mi rassicurava. Quando il Tar mi ha dato l’opportunità di ripetere la prova mi sono tornate le paure. Io volevo farcela ma ritornare in quei luoghi mi faceva tremare le gambe, anche se il Tar aveva imposto la forma del mio esame. Ho annunciato che volevo ricuperare l’anno e fare due anni in uno, dovevo dimostrare che si erano sbagliati.
La nuova scuola mi ha accolto per quello che ero, altri miei compagni avevano dei problemi e nessuno mi ha fatto pesare nulla. Mi alzavo la mattina alle sei per raggiungere Piacenza e sul treno riflettevo e pensavo. A fine anno sono stato promosso in quinta: una gioia infinita. E durante l’estate la mia autostima cresceva come l’erba che si innaffia: progetti per il futuro e voglia di essere uguale agli altri. Avevo capito che potevo convivere con quella «cosa » che è la dislessia, senza sconfiggerla ma dominandola.
E’ stata Stefania che mi ha suggerito di raccogliere i miei pensieri in una tesina e la zia mi ha aiutato a farlo.
Mentre raccontavo, scrivevo sul computer senza preoccuparmi se usciva il rosso del correttore ortografico. Ormai l’avevo buttata fuori dal corpo la mia dislessia anche se l’avrò sempre a fianco insieme alle cose belle e brutte della vita.
Con il passare degli anni sento che mi manca quella parte della mia infanzia coperta dalla nube, e il bambino che non sono stato bussa ancora alla mia porta. Ancora, in certi momenti, maltratto le persone che amo, sono capriccioso e prepotente, ma quando passa il momento so farmi perdonare e uso l’unica arma di seduzione che conosco: essere me stesso.
Luigino
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