Brano tratto da L’educazione è pace di Antonio Vigilante.

Non si rifletterà mai abbastanza sul rapporto tra educazione e violenza. Non mi riferisco alla violenza più evidente, quella fisica, che pure è stata massicciamente presente nelle istituzioni educative, e non è affatto scomparsa dai contesti familiari. Non mi riferisco nemmeno alla violenza di concezioni educative oppressive e totalizzanti, quali quelle documentate (e denunciate) da Alice Miller. Mi riferisco alla violenza sempre in agguato nel pensare, nel tentare la prassi educativa, anche quando questo pensare, questo tentare sono mossi dalle migliori intenzioni.

Leggiamo Rousseau, il padre della pedagogia moderna: «Fate esattamente il contrario del vostro allievo – scrive nell’Emilio – : lasciategli sempre credere di essere lui il padrone, ma siate sempre voi ad avere le redini in pugno. Non v’è soggezione tanto perfetta quanto quella che conserva l’apparenza della libertà: la sua stessa volontà viene ad essere così nelle vostre mani. Il povero fanciullo che niente sa, che niente può, che niente conosce, non è interamente in vostro potere?».

Padrone, redini, soggezione. La relazione educativa è una relazione di potere. L’obiettivo è lo stesso della peggiore pedagogia nera, ma lo strumento è più raffinato. Non va molto diversamente nelle nostre scuole e nelle nostre famiglie. Il docente, il genitore hanno una certa idea di dove vogliono portare l’alunno, il figlio; hanno richieste, solo soddisfacendo le quali si diventa bravi alunni e bravi figli; ed hanno un sistema di punizioni, di disconferme, di umiliazioni per quei figli e quegli alunni che non sono come loro desiderano. Non meraviglia che le scuole e le famiglie siano spesso luoghi senza pace. La scuola, in particolare, funziona secondo una logica di selezione/espulsione che è intrinsecamente violenta. E’ difficile negare che espellere qualcuno da un gruppo umano sia una forma di violenza. Si obietterà che è una violenza necessaria ed ineliminabile. Ne convengo; ma con una precisazione: in questo contesto. Vale a dire, nelle società capitalistiche, la cui legge è la competizione sfrenata, appena contrastata dalla retorica sulla democrazia e i diritti umani.

Anche educare alla pace, dunque, può essere una cosa violenta, se si cerca di fare degli studenti di una classe, o dei propri figli, un certo tipo di persona, sia pure una persona pacifica, mite, tollerante. Cosa diversa è educare nella pace. In questo caso l’enfasi non è sul fine futuro dell’educazione, sul modello pensato dall’educatore che lo studente o il figlio devono realizzare. Educare nella pace vuol dire far sì che le situazioni educative, qui ed ora, siano pacifiche. Perché ciò accada, occorre che vi sia simmetria nelle relazioni, una comunicazione piena, una accettazione reciproca, una esperienza autentica ed aperta al nuovo.

È opinione diffusa tra i pedagogisti e gli educatori che ogni relazione educativa non possa che essere asimmetrica, riguardare cioè persone che sono su piani differenti. Se così non è, si dice, viene a mancare per l’educando la guida di cui ha bisogno. È il caso di quei genitori o docenti che si pongono come amici dei loro figli o studenti, di fatto, si dice, abdicando al loro ruolo. Affinché vi sia educazione occorre che vi sia una giusta distanza. Questa opinione è legata a doppio filo alla concezione della educazione come imposizione di un modello umano. L’educatore rappresenta colui che incarna il modello e lo trasmette, l’educando colui che prende forma progressivamente secondo quel modello. L’educatore è il punto terminale della tensione dell’educazione, che è appunto un processo che va dall’educando all’educatore – dal figlio al genitore, dallo studente al docente. I primi diventano come i secondi; i secondi fanno da modelli per i primi. Ora, la caratteristica di chi fa da modello è quella di restare immobile. Il docente e il genitore impegnati in una relazione educativa asimmetrica sono fissi, fermi nella loro presunta perfezione. Abbiamo qui una doppia violenza. Da una parte, l’educando è vittima di violenza perché non può esplorarsi liberamente, ma è chiamato a conformarsi ad un modello pensato da altri; dall’altra, l’educatore è vittima di violenza perché è costretto a fissarsi nel ruolo del modello educativo, e per farlo deve nascondere le sue fragilità, le incertezze, i segni della sua umanità necessariamente imperfetta. In una relazione educativa simmetrica l’educatore non è un modello fisso, né l’educando tende verso di lui. Entrambi tendono verso qualcosa di ulteriore. Sono entrambi in ricerca del vero, del bene, del bello, del giusto. Queste cose non sono possesso sicuro del docente o del genitore; anche lui è alla ricerca. Educatore ed educando stanno facendo lo stesso cammino, e nessuno dei due conosce la destinazione.

Solo in una relazione simmetrica è possibile una comunicazione profonda. Un modello non comunica: trasmette. Il processo è unidirezionale. Il dialogo, quando c’è, è fittizio. Il docente fa domande di cui già conosce la risposta. Non c’è ricerca comune, non sono possibili risposte alternative. Comunicare vuol dire mettere in comune. Il docente-modello comunica, mette in comune il suo sapere, senza però ammettere che quello stesso sapere può essere scomposto, rielaborato, arricchito, magari anche messo in crisi in un gruppo di ricerca costituito da lui ed i suoi studenti. Inoltre, non comunica null’altro al di fuori del proprio sapere. La sua umanità resta fuori dalla scena. Ciò fa parte della giusta distanza. Comunicare il proprio sapere non è comunicarsi. Questo è possibile solo tra persone impegnate in un cammino comune, in una ricerca aperta, nella quale ognuno può portare qualcosa di essenziale. Nella relazione educativa asimmetrica l’educando è segnato solo dalla negatività e dalla mancanza. Quando se ne afferma la centralità, lo si fa in modo retorico; in sostanza, è il docente – il genitore – colui che è in possesso di ogni positività (cultura, valori, competenze, eccetera). Non c’è comunicazione autentica, se non c’è ascolto, e non c’è ascolto, se non si ritiene che la persona che parla possa dire qualcosa di importante per noi. Nel pensiero pedagogico di Capitini, il maestro porta nella relazione educativa il senso doloroso del limite e la consapevolezza dei valori, il fanciullo porta l’apertura ad una realtà liberata. Entrambi contribuiscono all’incontro – il più straordinario incontro che sia possibile tra esseri umani – con qualcosa di essenziale. Entrambi hanno qualcosa da comunicare. Comunicando profondamente, essi mettono in comune quello che sono. La comunicazione si fa comunione, accettazione e riconoscimento reciproco.

L’educazione è pace – cioè educazione piena – quando la nozione si fa esperienza, e l’esperienza si fa intelligenza. Il primo passo è la conoscenza ricevuta, la nozione, il dato trasmesso attraverso la lezione disciplinare del docente o quella di vita del genitore. E’ un primo passo assolutamente insufficiente, anche se in molte realtà che si pretendono educative non si tentano passi ulteriori. Oltre il dato e la nozione procede l’esperienza. «Dicam enim tibi, Catule, non tam doctus quam, id quod est maius, expertus», scrive Cicerone (De Oratore, lib. II, XVII, 72). Esperto, che è più che dotto. Mille nozioni non fanno un’esperienza. L’esperto è colui che ha messo alla prova le nozioni, e ciò facendo ha messo alla prova anche sé stesso. Il dotto è al sicuro, confortato dal sistema del sapere, inserito in un mondo ordinato di conoscenze. Chi fa esperienza si sporge verso il nuovo, rischia, si espone alla possibilità dell’errore, dello scacco, della sofferenza. Il dotto ha ricevuto un patrimonio che attraverso di lui giungerà intatto a quelli che verranno dopo di lui, l’esperto cerca di accumulare patrimoni diversi, e facendo ciò rischia di perdere ciò che già ha. Il dotto ha di fronte a sé un mondo pacificato dalla conoscenza, reso stabile e certo, ordinato e prevedibile. Chi fa esperienza fronteggia la realtà, si cimenta con essa; così facendo, interrompe la ripetizione e fonda la possibilità della novità. Ma il suo orizzonte resta quello di un dominio, di un disciplinamento della realtà da parte del soggetto. Educare all’esperienza vuol dire favorire il sorgere di una umanità in tensione costante con la realtà, aperta e protesa verso il nuovo, in grado di realizzare un umanesimo nel quale molto contano la scienza e la tecnica.

http://www.filosofico.net/

2 risposte

  1. Articolo eccellente e significativo. Ci rivedo molto del pensiero
    di John Dewej. Fa capire bene quale sia il problema centrale della
    scuola, e come esso sia interconnesso con la società.
    Mi chiedo, a parte il fatto che purtroppo la nostra scuola sta
    ora correndo in direzione opposta, se tale concezione può essere
    applicata con successo nella scuola senza cambiare anche la società,
    o se, invece, il cambiamento della scuola possa soltanto accompagnarsi
    al cambiamento generale di tutta la società.

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