E’ arrivata l’estate e il caldo e sempre meno persone frequentano il web ed i blog: meglio così, significa che siamo più presi dal relax e dalle vacanze!

Io, per il momento, sono ancora in piena attività ed oggi voglio riportarvi una parte di una relazione che avrei dovuto tenere il mese scorso all’Università di Siena in un Convegno sulla dislessia al quale, purtroppo, non sono più riuscita ad essere presente.

Una riflessione, naturalmente, che riguarda proprio il mondo scolastico universitario e gli studenti dislessici.  

L’Università deve anch’essa stare al passo, orientarsi con quello che prevede la legge 170 e concordare un “Patto formativo” tra lo studente dislessico e tutti i soggetti coinvolti, quali i docenti, il rettore ed, eventualmente, anche il tutor. Un patto scritto e sottofirmato, sottoposto a verifiche in itinere.

Questo perchè l’obiettivo della formazione universitaria dovrebbe essere quello di portare lo studente ad autoregolarsi, ad autoorientarsi.

Ma visto che il dislessico ha problemi in questo ambito, può accadere che venga considerato come privo di motivazione, che non si impegna, uno studente con scarsa volontà, distratto e superficiale.

Ed ecco perchè il dislessico universitario, che ha già subìto diverse frustrazioni in giovane età riguardo alla sua condizione, preferisce “nascondersi”, confondersi fra gli altri, perchè non risucceda che venga nuovamente stigmatizzato in un’età in cui non si accetta più di essere messo in discussione.

Il docente, quanto più quello universitario, dovrebbe essere un facilitatore dell’apprendimento, colui che indirizza lo studente verso le risposte che cerca, diversificando le metodologie di studio basandosi su diversi tipi di apprendimento (come quello visivo ed auditivo), offrendo semplificazioni pratiche, in modo da “agganciare” un maggior numero di studenti, dislessici e non.

Questa tipologia di docente deve avere alle spalle una formazione attuale, deve potersi far carico dello studente dislessico in tutta la sua complessità di adattamento, dovrebbe essere in grado di individuare e potenziare il canale preferenziale di apprendimento.

Infatti, se il dislessico non apprende facilmente attraverso la lettura è perchè la sua strutturazione neurobiologica preferenzia canali diversi, come quello visivo e uditivo.

Il dislessico predilige un tipo di apprendimento visuo-spaziale, con delle caratteristiche tipiche che sono state descritte da diversi autori anglo-americani.

Essi hanno estrema difficoltà nella lettura, ma se gli stessi dati sono organizzati in un sistema diverso, che può essere una figura, una mappa o altre forme di visualizzazione, ecco che per loro cambia tutto: riescono a capire l’informazione senza problemi, anzi con maggiore facilità. Le nuove tecnologie, che sfruttano la capacità del cervello umano di esprimersi per immagini, sono sicuramente i migliori ausili per i dislessici, perchè I dislessici utilizzano strategie complesse, prevalentemente visive. Siamo solo all’inizio, ma speriamo che per le persone dislessiche sia l’inizio di una nuova era, era in cui non saranno più penalizzati per il loro modo di apprendere e pensare.

In una ricerca americana, piuttosto recente, si è visto che i dislessici sono presenti per lo più nel settore dell’arte e del design e in America esistono centri come lo Yale Center for Dyslexia and creativity, in cui si studiano e si spiegano i punti di forza dei dislessici. 

Tornando alla legge 170, essa prevede che gli Atenei offrano dei servizi specifici per i DSA, che pongano in essere tutte le azioni necessarie a garantire l’accoglienza, il tutorato, la mediazione con l’organizzazione didattica e il monitoraggio dell’efficacia delle prassi adottate.

Nell’ambito di tali servizi potranno essere previsti:

  • utilizzo di tutor specializzati;
  • consulenza per l’organizzazione delle attività di studio;
  • forme di studio alternative come, per es., la costituzione di gruppi di studio fra studenti dislessici e non;
  • lezioni ed esercizi on line sul sito dell’università. 

    A questo punto alcune considerazioni personali sulla figura del tutor. In realtà mi sono chiesta se lo studente dislessico avesse più bisogno degli altri di un tutor e perchè, e la risposta è stata che, come spesso accade, se ricorrere alla figura del tutor rappresenta una distinzione tra lui e gli altri studenti, essa non viene accettata, perchè non farebbe altro che sancire una diversità che si ha paura venga scambiata per disabilità se non, addirittura, incapacità.

Quindi, ben vengano i tutor, i gruppi di studio, le lezioni on-line, sempre che siano disponibili per tutti gli studenti.

Nello specifico del tutor, come descritto dall’Università di Padova sul suo sito, da un punto di vista operativo sostengono lo studente fin dall’inizio nell’organizzazione pratica e nell’acquisizione di un valido metodo di studio attraverso il raggiungimento di obiettivi formativi specifici. 

Pertando dovrebbero: 

  • fornire informazioni e consigli utili per lo studio;
  • predisporre strumenti per il recupero delle lacune di apprendimento nelle conoscenze e nelle abilità di base;
  • favorire la consapevolezza degli studenti nella elaborazione di un progetto generale di studi;
  • valorizzare gli strumenti necessari per predisporre un piano di lavoro, per individuare un metodo idoneo ad affrontare lo studio e gli esami;
  • assistere gli studenti nella scelta dell’area disciplinare e del docente per sviluppare una tesi di laurea;
  • fornire supporto di orientamento nell’individuazione dei percorsi di apertura al mondo delle professioni.

Il tutor (parlo di tutor alla pari) dovrebbe essere un mediatore tra gli studenti e il “sistema università” e compiere azioni di consulenza. Dovrebbe essere in grado di monitorare le specifiche richieste legate a problemi didattici, logistici, orientativi, informativi e di comunicazione per poterle segnalare alle segreterie didattiche competenti.

Solo in questi termini ha senso la figura del tutor, consentendo allo studente dislessico in particolare, di partecipare alla vita attiva dell’università, aiutandolo a riconoscere quali comportamenti portino al successo e quali no, sostenendolo nelle situazioni di disagio o di incertezza. Io lo chiamerei “un testimone” fra il dislessico e l’Università, laddove non sempre la struttura universitaria è in grado di supportare e comprendere gli studenti dislessici.

Di sicuro, ciò che non si può più ammettere, è l’ignoranza di una parte del mondo scolastico su un argomento come la dislessia che ha implicazioni multiple, proprio a partire dalla scuola.

E voi, che ne pensate sulla figura del tutor? Avete delle esperienze dirette?

A tal proposito vi consiglio di leggere l’ultimo libri uscito sull’argomento: Dislessia in età adulta. Percorsi ed esperienze tra università e mondo del lavoro.Questo volume raccoglie esperienze e saggi sul trattamento della dislessia in età adulta (all’Università e nel mondo del lavoro).

Dopo un capitolo sulle nuove norme introdotte nel mondo universitario con la Legge n. 17 del 2010, gli autori riportano una serie di testimonianze raccontate in prima persona da universitari, laureati e adulti inseriti nel mondo del lavoro, accomunati da un disturbo specifico di apprendimento.

Il volume raccoglie poi alcuni contributi di studiosi di fama internazionale (Cesare Cornoldi, Denny Menghini, Ciro Ruggerini, Andrea Biancardi, Enrico Ghidoni) e una parte dedicata alle tecnologie compensative.

2 commenti su “UNIVERSITA’ E DISLESSIA: MIE RIFLESSIONI”

  • Dice bene -che non è più ammissibile l’ignoranza su tale argomento-; però ad oggi nonostante tutti i buoni propositi, nella pratica non si rispetta nulla. Io sono uno studente universitario dislessico, e di tutto quello che prevede la legge non mi è stato dato nulla, nonostante lettere inoltrate in cui portavo alla conoscenza della mia situazione. Spero tanto che le aspettative per tutti noi dislessici migliorino.

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