Le ricerche degli ultimi anni in ambito agli studi sulla neurodiversità hanno permesso di sviluppare e mettere a confronto teorie sullo specifico funzionamento del cervello umano. Il concetto di neurodiversità, infatti, ci ricorda che non esistono due menti uguali anzi, non esistono due complessi mente-corpo uguali (Singer, 1998).

Lo stesso Thomas Armstrong, lo studioso inglese che è stato fra i primi a parlare e studiare le caratteristiche dei cervelli neurodiversi, nel suo articolo del 2015 dal titolo “Il mito del cervello normale abbraccia la neurodiverità”, a proposito dei punti di forza associati a questa condizione, afferma che essi possono suggerire una spiegazione evolutiva del motivo per cui questi disordini sono ancora presenti nel nostro corredo genetico.

E ancora, l’educatore dislessico Ross Cooper parla di modello sociale della disabilità in relazione alla dislessia e alla neurodiverità più in generale. Questo significa che quelli che si definiscono “deficit” del dislessico, non sono altro che artefatti di aspettative sociali ed educative inappropriate, e quindi frutto di un’impostazione sociale e non di un deficit oggettivo della persona.

Di questo e altro ho scritto nel mio libro La dislessia. Dalla scuola al lavoro nel terzo millennio (2020), anticipando così le riflessioni che oggi diventano il risultato di una ricerca dal titolo Developmental Dyslexia: Disorder or Specialization in Exploration?, condotta da Taylor e Vestergaard, due ricercatori dell’Università di Cambridge.

Quello che affermano nell’Introduzione del loro studio è dare rilievo alla possibilità che le persone con diagnosi di dislessia siano specializzate nella ricerca cognitiva esplorativa e, piuttosto che avere un disturbo neurocognitivo, svolgano un ruolo essenziale nell’adattamento umano.

Infatti, gli studi sull’incidenza della dislessia mostrano un numero particolarmente elevato di persone dislessiche in aree di studio o lavoro che richiedono capacità esplorative, ad esempio artisti, designer, ingegneri e imprenditori. È questo modello condiviso che ha motivato l’ipotesi che gli individui dislessici siano specializzati nella ricerca esplorativa.

Questo modello consente di collocare i processi cognitivi associati alla dislessia in un contesto di ricerca molto più ampio, permettendo di comprendere l’importanza di questa modalità di pensiero quando si contemplano questioni più complesse legate all’adattamento umano e all’evoluzione culturale.

Questo significa che la forma di cognizione rappresentata dal Disturbo Specifico di Apprendimento gioca un ruolo essenziale nel consentire agli esseri umani di adattarsi.

I ricercatori giungono a questa conclusione: meno accettazione del pensiero dislessico nella nostra società equivale a meno adattabilità ed evoluzione, perché i sistemi che perfezionano le soluzioni esistenti più rapidamente rispetto all’esplorazione di nuove, possono essere efficaci a breve termine ma sono autodistruttivi a lungo termine.

Quello che andrebbe promosso è un maggiore spazio ai diversi punti di forza cognitivi individuali dei dislessici e, quindi promuovere la collaborazione fra le menti neurodivergenti e quelle neurotipiche.

Ciò aiuterebbe a realizzare i vantaggi sinergici delle strategie complementari di ricerca cognitiva, al fine di affrontare meglio le sfide esistenziali che attualmente la nostra specie e il nostro pianeta devono affrontare.

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