Per Ada ci sono rumori che meritano più attenzione di altri. Il rumore che fa un’orchestra quando gli strumenti vengono accordati, un attimo prima che il concerto inizi. Quello che fanno le foglie quando si alza il vento. E anche quello che fanno le tazzine quando i baristi le sistemano sopra le macchine del caffè. Ada sa che ci sono cose che, quando iniziano, fanno rumore. E quando sente quel rumore, si ferma e ascolta. Ascolta il rumore delle cose che iniziano.
Comincio così, facendo parlare l’incipit di un libro, un romanzo che mi appresto a leggere, benchè non sia una lettrice di romanzi (1 o due l’anno?). Questa volta la curiosità è tanta, sopratutto leggendo le recensioni uscite fino ad oggi. Si tratta dell’opera prima di Evita Greco: Il rumore delle cose che iniziano.
Cosa ha di speciale questo romanzo? Innanzitutto ha già venduto tante copie ed è stato tradotto in diverse lingue.
E poi Evita Greco, autrice trentenne al suo esordio, è dislessica. Diagnosticata in seconda elementare, la sua carriera scolastica è stata in salita. Il giorno in cui le hanno diagnosticato la dislessia, è tornata a casa e ha scritto sul suo diario una promessa: da grande farò la scrittrice.
Nella sua giovane vita è stata bagnina, animatrice in colonia, cassiera in un supermercato, segretaria e baby-sitter, si è laureata in lettere e ha fatto un master di scrittura, durante il quale le è stato chiesto di scrivere un romanzo. Ed è quello che ha fatto, con un occhio al correttore ortografico e un’orecchio alla porta cigolante della biblioteca comunale, dove è riuscita a scrivere in tranquillità.
Ho chiesto ad Evita Greco di raccontarci di sé. La ringrazio per la sua disponibilità e per averci offerto un pezzo della sua vita attraverso le sue parole.
Quando dico agli altri che sono dislessica –e prima che uscisse il libro non lo dicevo praticamente a nessuno- le reazioni sono di due tipi, entrambi sbagliati, se posso permettermi. Il primo ha a che fare con l’ironia: “ah sì, anche io lo sono, mi impappino quando parlo”, l’altro con la pena malcelata che si rivela attraverso quegli sguardi che Ada –la protagonista del libro – odia con tutta se stessa, quelli di chi ti guarda sforzandosi di farti sentire “normale” ma lo vedi lontano un miglio che per loro hai smesso di essere “normale”. Vorrei allora che fosse possibile tranquillizzare tutti dicendo che no, se ti impappini non è detto che tu sia dislessico, e che sì, un dislessico può apparire “normale” e –qualunque cosa significhi- esserlo.
Cosa è la dislessia? Cosa penso significhi essere dislessico?
La dislessia è effettivamente un disturbo dell’apprendimento. Il che significa, credo, che il grosso del problema riguarda l’apprendimento di due processi –purtroppo o per fortuna- fondamentali nella vita: leggere e scrivere. Significa cioè che si fa più fatica ad imparare queste due cose e che, probabilmente, in questi due processi, continuerai a fare errori.
Nel mio caso, durante la prima elementare notavo –e lo notavano quelli intorno a me- che era molto, molto, molto difficile imparare a leggere e a scrivere, ma in un certo senso sapevo che sarebbe stato difficile, credo lo sappiano tutti i bambini e, di sicuro, per quanto ne sapevo, anche per gli altri poteva essere difficile. La faccenda si è fatta più seria in seconda elementare, quando tutti i miei compagni leggevano in modo scorrevole ed erano abbastanza veloci a scrivere, e invece io no. Non capivo quale fosse il verso giusto delle lettere e in molti pensavano che fossi sorda. La mia maestra aveva già avuto a che fare con un altro bambino dislessico, e allora propose ai miei di farmi vedere da un certo dottore e non dal solito otorino. Il dottore pronunciò questa parola, dislessia, e io vidi il clima distendersi intorno a me: non correvo più il rischio di essere bollata come sorda, o stupida. Ero “semplicemente” dislessica. Per me non cambiava nulla: era ancora difficile imparare a leggere e scrivere. La vera differenza, credo, l’hanno fatta gli adulti intorno a me: le mie maestre i miei genitori. Soprattutto i miei genitori: a loro non importava che prendessi voti alti. Ecco tutto: non erano ossessionati dall’idea che io eccellessi. Dovevo impegnarmi, questo si. E nonostante mi impegnassi –forse- più degli altri, in certe cose non avrei comunque ottenuto bei risultati.
Hanno insistito affinché il mio impegno venisse equiparato a quello degli altri tramite forme di compensazione? Hanno fatto in modo che i miei voti tenessero conto delle mie “difficoltà”? No. E meno male. Meno male per un semplice motivo: la vita è cosi. In certe cose riusciamo meglio e in altre peggio, in certe cose dobbiamo impegnarci di più e non è detto che otterremo risultati. Il fatto che mi impegnassi più degli altri ma che ottenessi minori risultati mi ha ferita? Tantissimo. Mi riempiva di rabbia. Infatti, proprio come Ada (la protagonista del libro), tornando a casa da scuola, lanciavo sempre lo zaino con una forza inimmaginabile. Ma la mia mamma mi ha fatto un altro bellissimo regalo: ha aspettato pazientemente che arrivasse il momento in cui altre abilità sarebbero entrate in campo (a scuola, come nella vita). La vita del bambino dislessico smette di essere dura quando il mondo intorno a lui smette di chiedergli solo le due cose che per lui sono le più difficili del mondo.
Io ero brava a raccontare storie. Il mettere in piedi storie è sempre stato per me la cosa più bella del mondo. Lo facevo tramite gli gnomi, tramite i peluche, tramite mia sorella e le sue amiche. Ad un certo punto, sempre durante le elementari, capitò l’occasione di mettere in piedi una storia: collaborare alla stesura del copione di una recita. Mi riuscì bene. Misi in piedi lo snodo della vicenda praticamente da sola, e fu “un successo”. Un successo che compensò in ampia parte il disagio provato nel prendere atto della mia lentezza nella lettura o nel dettato. Venni in quell’occasione ricompensata non soltanto perché finalmente era arrivato anche per me il momento di mettere a frutto le mie abilità, ma perché la prova provata che alcuni di noi sono bravi in qualcosa, altri in altre cose. Per alcuni è facile imparare a scrivere, per altri lo è disegnare, per altri ancora raccontare storie. Vice versa: per alcuni leggere è difficilissimo, per altri è difficile imparare a fischiare, per altri ancora fare capriole. Funziona così, e non ha nulla a che fare con la quantità di impegno che uno ci mette. O almeno, non solo.
Se potessi tornare dalla me bambina, se potessi parlare a qualche bambino dislessico, direi quello che nonna Teresa, nel libro, dice ad Ada: fai lo sforzo di scoprire la tua vera natura e prenditene cura. E’ davvero solo questo il punto: lasciare alle persone –in particolar modo ai bambini- la possibilità di scoprire in che cosa sono bravi e in che cosa no. Lasciare loro la possibilità di sbagliare, di prendere brutti voti e quella di migliorare. Persino quella di impegnarsi e non riuscire. Vale per tutti, secondo me, non solo per i bambini dislessici. La corsa all’eccellenza per quanto riguarda i bambini mi spaventa. Vale per tutto: dallo spannolinamento, al pronunciare la prima parola. E’ come se non avessero altra scelta rispetto all’eccellere. Il fatto è che, credo, se pretendiamo che eccellano in tutto, finirà che nessuno eccellerà in niente e, peggio, questi bambini finiranno per ignorare la loro vera natura, la cosa che più sono bravi a fare, quella che li renderà felici.
Per me quella cosa è sempre stata poter raccontare storie. La scrittura (nel senso di mettere una lettera dietro l’altra), quella cosa in cui a causa della dislessia non sono tanto brava a fare, per me, è solo il modo attraverso cui raccontare una storia. La sola cosa che ancora mi fa un pochino male è vedere che, per alcuni, i miei errori sono una specie di mancanza di rispetto (che pensino che sia ignoranza non mi da così fastidio). Non è mancanza di rispetto. Questo vorrei che si sapesse.
In molti mi chiedono se scrivere questo libro, se il vederlo pubblicato, sia o non sia una specie di rivincita, un modo di dimostrare di aver vinto una battaglia.
Non mi piace vederla così. Non credo siano queste le battaglie, e mi ha sempre un po’ intristito ragionare in termini di rivincite. Volevo scrivere un libro e l’ho fatto. Non è questione di dislessia, è questioni di cosa siamo chiamati a fare qui.
Grazie Evita, ti auguro di poter continuare a fare quello verso cui ti senti chiamata!
PS: per chi volesse approfondire, vi consiglio di leggere anche questa intervista ad Evita, uscita su IoDonna.
1 Comments
sonia
Grazie di questo articolo suggerimento!