C’è un termine al quale sono molto affezionata per diversi motivi, anche personali, ed è Neurodivergenza. Fin qui niente di nuovo, soprattutto per chi già ha letto i miei libri, soprattutto La dislessia. Dalla scuola al lavoro nel terzo millennio. Già da Le aquile sono nate per volare (2004) la mia impostazione teorica e pratica è stata quella di considerare la dislessia e i DSA come una caratteristica, quindi secondo una visione socio-psicologica, piuttosto che medica. 

Questo mi ha permesso di individuare non solo quelli che possono essere i “deficit”, ma anche quelle che sono le molteplici sfaccettature incredibilmente “geniali” che rendono i DSA ricercati e apprezzati in diversi ambiti. 

In un mio precedente articolo ho già cercato di sviluppare i concetti fin qui espressi (l’articolo è Affrontare le sfide esistenziali attraverso la mente dislessica), riportando una ricerca piuttosto recente. Eppure mi preme sottolineare che c’è ancora tanta confusione, io stessa ne sono stata vittima, fra il termine neurodiversità e neurodivergenza, che non sono sinonimi  (appena possibile, infatti, apporterò alcune correzioni nel primo libro citato). 

Neurodiversità, termine coniato dalla sociologa e attivista autistica Judy Singer negli anni ’90, prende come base la definizione di biodiversità, per cui si arriva ad affermare che ognuno è neurodiverso dall’altro, perché esiste una variabilità tra i sistemi nervosi di ogni essere umano e, quindi, delle differenti caratteristiche che costituiscono la neurologia di ognuno. Ora circa l’80% delle persone ha uno sviluppo neurologico “tipico” di alcune aree cerebrali, mentre il 20% ha uno sviluppo “atipico”, cioè il loro cervello, meglio ancora dire il loro Sistema Nervoso, si è sviluppato in modo diverso dalla maggior parte delle persone.

Con il termine neurotipico/a, intendiamo quindi la maggioranza delle persone che hanno caratteristiche simili (ma mai uguali!) e hanno seguito uno sviluppo neurologico simile. 

Neurodivergente è semplicemente l’opposto di neurotipico: descrive qualcuno che pensa, si comporta e apprende in modo diverso da ciò che è considerato tipico.

Infatti non ci si riferisce soltanto ai DSA ma anche all’autismo, sindrome da deficit di attenzione e iperattività, disprassia, sindrome di Tuorette, così come ho spiegato nel capitolo 2 del mio libro citato all’inizio dell’articolo.

In particolare riporto che

il termine neurodiversità non vuole essere, perciò, un modo per indorare la pillola, quanto il riconoscere la ricchezza e la complessità della natura e del cervello umano. Usando il concetto di neurodiversità per comprendere le differenze neurologiche individuali, si crea una narrazione in cui le persone individuate da una categoria possono essere viste in termini di aree di forza e di debolezza.

La neurodiversità è un concetto che afferma che lo sviluppo neurologico atipico (neurodivergente) è una normale differenza umana che deve essere riconosciuta e rispettata come qualsiasi altra variazione umana.

Questo approccio cambia i paradigmi culturali perché c’è la spinta a riesaminare modelli di pensiero e comportamenti precedentemente considerati atipici, “anormali” o “deficitari”,  semplicemente perché deviati da quella che è considerata la norma.

Ed ecco che si ritorna all’origine e si chiude il cerchio: come ho sempre sostenuto nel caso dei dislessici, è più appropriato parlare di caratteristiche dell’individuo, fondate su una base neurobiologica; il termine caratteristica è auspicabile quando si vuole descrivere il modo in cui un individuo apprende e, quindi, il suo funzionamento nelle aree della lettura, scrittura e calcolo. Utilizzare questo termine dovrebbe aiutare gli insegnanti a organizzare le modalità di aiuto da predisporre per facilitare l’apprendimento, favorendo lo sviluppo delle potenzialità del bambino e migliorando, così, la qualità della vita dello studente dislessico.

Il termine caratteristica non è stigmatizzante e indirizza, inoltre, verso un approccio pedagogico che valorizza le differenze individuali (tratto dal mio ultimo manuale per i genitori: Il mio bambino è dislessico).

 

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